di M. Calamari – Informazione stordente, sovrabbondante, guidata dal potere. La Rete ne è alimentata, troppi cittadini della Rete ne fanno indigestione. Ma la bolla sta per scoppiare.

Roma – Talvolta le contingenze della Rete (o forse il caldo, o le cattive notizie economiche, o le perverse dinamiche lavorative, o una “guerra” che si trascina da troppo tempo) ti portano a ritirarti in un angolo. Stare negli angoli taglia fuori dall’azione, però in compenso protegge le spalle. Ma, cosa non forse evidente, offre anche un orizzonte più aperto e completo, che solo per un momento può essere nascosto da qualcosa, qualche attore o evento, destinato in poco tempo a scomparire.

Le cose veloci ed effimere svaniscono, come nella descrizione che il “Viaggiatore” fa ne “La macchina del Tempo” (impagabile godersela in questa edizione originale libera) di Herbert George Wells durante il suo primo viaggio, mentre il movimento di quelle più lente diventa facilmente percepibile, e la solidità della cose inamovibili spicca con la massima chiarezza.

Anche un solo giorno di pigra vacanza ti pone subito in una situazione percettiva di questo tipo: le notizie dei media di tutti i tipi si dissolvono nella loro irrilevanza, le orge mediatico-sportive scompaiono rese invisibili dalla loro stessa velocità, e sull’orizzonte appaiono, velate dalla distanza ma solidissime, le cose destinate a durare.Prima di tutto, la crisi di un modo di vivere ormai arrivato al capolinea, e stranamente non nella maniera che temevamo all’epoca del boom economico.
Qualcuno ricorderà i timori di esaurimento delle risorse naturali e di catastrofe ecologica, tanto studiati da enti ormai immeritatamente dimenticati come il “Club di Roma“. Altri ricorderanno i timori del risveglio dei paesi del Terzo Mondo, che avrebbero sommerso un modo di vivere “occidentale”, sbrigativamente liquidato come sfruttatore ed egoista.

Qualche visionario, chiuso nel suo mondo letterario e benevolmente etichettato come scrittore di fantascienza, estrapolava semplicemente il presente con risultati di estremo successo: basti pensare alle descrizioni allora oniriche ed oggi storiche di una buona parte della letteratura cyberpunk, a cominciare da Rudy Rucker e William Gibson. In quei sogni (definirli “incubi” colorerebbe emotivamente una discorso molto serio, e perciò Cassandra cercherà di evitarlo) il prevalere degli Stati Multinazionali sugli Stati Nazionali veniva allora letto come il prevalere esplicito e totale dell’economia sulla politica.
In chiave eroica e libertaria, sullo sfondo, anzi, negli interstizi di questo duello di entità inumane, si svolgevano le vicende di individui privi di cose che molti di noi definiscono “naturali” come i diritti civili e la democrazia, e che sopravvivevano (o meno) come dimostrazione della forza dell’individuo.
Ma in nessuno di questi scenari si vedeva il mondo avvitarsi su se stesso senza che esistessero due fazioni. una vincente e l’altra perdente.
Non si percepiva il crollo di un mondo, spacciato come solidissimo, le cui strutture portanti si rivelavano fragili quinte di cartapesta.

Oggi invece molti di coloro che hanno vissuto (come Cassandra) in un’epoca di relativa abbondanza e crescita, possono solo rimproverarsi di non aver percepito l’evidente distacco dell’economia dai cicli produttivi, materiali o immateriali che fossero, ed il suo prograssivo trasformarsi in un’industria di produzione e distribuzione di debito, vampiresca, intrinsecamente creatrice di disuguaglianze e destabilizzante.
Questo è stato particolarmente evidente ed altrettanto particolarmente non percepito nei periodi immediatamente precedenti e seguenti la bolla delle dot.com, che ha rappresentato a ben vedere, su una scala molto più piccola, la catastrofe economica prossima ventura.

In questa situazione si è assistito ad un inseguimento del vantaggio immediato con un totale spegnimento del pensiero critico, che ha accomunato aspiranti veline con esperti di sicurezza, tronisti e sviluppatori delle piccole Silicon Valley italiane. Resta però difficile, malgrado l’indubbia responsabilità di chi ha gestito i media e l’educazione nell’intorno del cambio di millennio, giustificare un così totale spegnimento del pensiero critico da parte di un’intera generazione, assolutamente trasversale a tutte le categorie di persone non stupide e non menefreghiste.

La Rete è stata accusata da molti di grandi responsabilità in questi accadimenti, avendo avviato la trasformazione di una generazione di giovani in maniacali creatori di consenso personale o in brufolosi nerd videogioco-dipendenti, incapaci di una vita reale. Si tratta, è vero, di descrizioni reali e veritiere, ma che riguardano solo pochi luoghi di un mondo vasto e complesso come la Rete.

Non è però sbagliato attribuire alla Rete (paradossalmente) una parte di responsabilità nello spegnimento del pensiero critico di una generazione, perché la Rete, dispensatrice generosa di quantità di informazioni oltre ogni limite, è stata spesso confusa con una dispensatrice di verità, come una stampella o una carrozzella per persone alla ricerca di scorciatoie intellettuali. Un errore madornale, in cui tutti sono prima o poi incorsi, come reazione allo shock informativo che la personale scoperta della Rete aveva provocato.

C’è stato chi, per intelligenza o solo fortuna, ha capito che solo chiudendo il rubinetto dell’informazione, selezionando e scartando senza pietà il torrente di fatti, idee, scritti e software che tentava di riversarsi nelle nostre menti, si poteva ottenere il meglio dalla Rete stessa.
E ci son stati tanti, troppi, che invece hanno deciso di vivere nell’abbondanza, facendosi trascinare dalla corrente di informazioni, e spigolando qualcuno dei fiori più belli o appariscenti quando avevano bisogno di verità o di indicazioni.

Chi ha agito nel primo modo, ha dovuto far crescere il proprio senso critico, chi ha agito nel secondo lo ha spento completamente e sostituito, spesso inconsapevolmente, con l’estro del momento: nel far questo ha agevolato coloro, sempre presenti in ogni epoca umana, che voglio accaparrare sia risorse che potere a danno di altri.

Ha un sapore amaro la “vittoria” di chi, mentre vede la propria città brillare degli incendi appiccati da chi era nascosto nel cavallo di legno, potrebbe rivendicare una ragione che non ha però più senso di essere.

E mentre tra poco arriverà l’alba che consentirà di vedere quanto grande è stata la distruzione di quello che fino ad ieri sembrava solido e familiare ed oggi appare come qualcosa da mantenere lottando contro chi tenta di salire sulla scialuppa, diventa chiaro che guardare indietro non serve: serve guardare il presente per sopravvivere, ed il futuro per trovare una nuova strada da percorrere.
Quale sia è una domanda estremamente difficile: di sicuro però una risposta che dia spazio all’umanità dell’individuo non potrà non passare da un riavvicinamento ai valori intrinseci della produzione (zappa, penna o tastiera sono equivalenti) come fondamento di un dignitoso diritto all’esistenza.

E non potrà non includere un distacco totale da sovrastrutture finanziarie che sono state solo l’ultima, ingegnosa invenzione di chi è alla ricerca di asinelli da sfruttare fino al punto di farne tamburi.

Marco Calamari