È rassicurante vedere che, per alcune generazioni dell’acquitrino antiautoritario, i dogmi da cui troppo spesso partiamo, che ci divorano e ci fanno girare in tondo in una scatola chiusa, vengono messi in discussione. Che quando certi principi ideologici finiscono per causare danni collaterali umani, siamo capaci di criticarli, abbandonarli o riformularli. Un testo che alcuni compagni hanno pubblicato di recente sembra essere riuscito a dare origine a discussioni appassionanti ed importanti. La forza di quel testo era in certo qual modo il ritorno all’individualità, che tutti abbiamo più o meno sostituito con dei dogmi e con l’ideologia, sostituendo anche gli individui con delle persone-tipo. E se quel genere di discussioni, sul libero amore, la coppia, la pluralità, la gelosia, la non-esclusività, etc. esiste effettivamente tra noi, forse soprattutto in situazioni in cui le persone vivono assieme e a volte hanno perso il senso dell’intimità (squat, comunità, etc.) più che altrove, mancava in effetti la volontà di farne una discussione pubblica, tramite un testo che non fosse destinato solo a passare sottobanco all’interno di una o due bande di amici e amiche.
«Libero amore» è un’espressione, utilizzata fin dal XIX secolo, che all’origine serviva per definire il rifiuto anarchico del matrimonio, in una prospettiva di emancipazione individuale della donna e dell’uomo. I suoi sostenitori rifiutavano il matrimonio, considerato una forma di schiavitù, innanzitutto per la donna, ma anche come un’ingerenza dello Stato e della Chiesa all’interno della loro intimità, e gli contrapponevano la «libera unione». Si trattava di affermare che due individui possano scegliersi da sé, amarsi in maniera profana senza chiedere il permesso al sindaco o al curato ed alzare il dito medio di fronte a tutti coloro che intendano intromettersi nella loro relazione. A contatto con gli ambienti libertari educazionisti e comunitari della fine della belle époque, sotto la forma del cosiddetto «cameratismo amoroso», esso ha assunto un altro significato, benché in modo occasionale; ma ci ritorneremo sopra.
È negli anni 60, a contatto col movimento hippy, che il termine ha cambiato totalmente significato. Il senso era di avere relazioni multiple e paritarie, in diverse forme, ma anche di aprire l’intimità sessuale da due a molte persone nello stesso tempo, in particolare nella forma del triangolo sessuale e del sesso di gruppo. Molto spesso, gli amorliberisti dell’epoca aggiungevano a tutto ciò una dose di misticismo (tantrismo, magia sessuale etc.).
Il «libero amore» praticato oggi negli ambienti antiautoritari francesi, americani o tedeschi è assai più vicino alla visione hippy che alla lotta antistatale ed anticlericale degli anarchici individualisti evocati poc’anzi, propugnatori della «libera unione».
Ma «libero amore» è un’espressione che in sé non è corretta, perché usata in questo mondo in cui tutti noi viviamo e nel quale non siamo in nessun modo liberi. Non c’è da stupirsi, d’altra parte, che questa espressione abbia tanto prosperato negli ambienti educazionisti e comunitari del movimento libertario della fine della belle époque. Basta rileggere la retorica fastidiosa dell’«en dehors» [«al di fuori», dal mondo, da questa società, NdT] di un Emile Armand o di un André Lorulot per rendersene conto. Quei libertari che vivevano per lo più in comunità poco aperte, in cui i bambini erano “protetti” dal mondo esterno (un po’ come fanno gli Amish), che cedevano a tutte le più ridicole mode dell’epoca (dieta a base d’olio, divieto di teina e caffeina, consumo esclusivo di frutti con guscio, igienismo estremo, scientismo e progressismo assoluti, etc.) avevano la sensazione di vivere «al di fuori» dal mondo, di vivere liberi. Di fronte alla quantità ed alla qualità del lavoro rivoluzionario da effettuare per cambiare il mondo, hanno saputo trovare la più comoda delle piroette ideologiche: vivere la libertà subito, nel «fra di noi» e nella comunità. Non erano i primi e nemmeno gli ultimi.
Ma noi parliamo spesso di una libertà totale ed indivisibile, perché a cosa servirebbe la libertà di circolazione, per esempio, se non si può circolare in nessun altro posto che in strade piene di botteghe, telecamere e sbirri? Lo stesso vale in amore: come essere liberi in amore quando non siamo liberi in nient’altro?
L’errore tipico e storico del gauchisme, che consiste nell’ accontentarsi di capovolgere i valori del nemico – prendere il denaro ai ricchi per darlo ai poveri invece che abolire completamente le classi, riprendere a propria volta le retoriche di discriminazione e trasformarle in orgoglio (operaismo, orgogli etnici, sessuali e territoriali di ogni genere…), fare politica meglio dei politici ufficiali, invertire il patriarcato invece di distruggerlo, etc. – questo errore beninteso non risparmia nemmeno il campo delle relazioni amorose ed affettive. Si fa allora il contrario di quello che facevano le generazioni precedenti, tutti quei genitori che hanno sacrificato i propri desideri e le proprie vite per la coppia o la famiglia. Si è così avuta, e a lungo, l’impressione di inventare qualcosa di nuovo, mentre non si faceva altro che proporre nuovi modelli di relazione copiati in negativo su quelli vecchi, ed a cui ci siamo conformati come si fa con ogni norma.
La norma in vigore oggi nel milieu per quanto riguarda i modi di relazione amorosa ed affettiva è l’esortazione alla pluralità, l’imperativo morale della non-esclusività, la “costruzione di un’affettività abbondante” e la moltiplicazione dei partner. E, dato che la norma è rovesciata, lo sono anche i refrattari alla norma. La relazione a due che basterebbe a se stessa è quindi la nuova devianza da reprimere.
Eppure ci sembra importante riaffermare oggi che due persone possono sentirsi bene insieme senza per questo provare il bisogno di moltiplicare le avventure e ciononostante senza imporre la fedeltà come un rapporto morale oppure reprimere la sessualità “extraconiugale” a causa di valori stupidi e castratori. Ma ci sarà sempre qualche gran furbacchione/a che si crederà più “liberato/a” degli altri pronto/a a far cadere il proprio giudizio sulle teste altrui: «Sono in coppia, che vergogna!».
In fondo, perché dare la propria opinione, come il curato della parrocchia oppure il vescovo, su cose che non ci appartengono e non mettono in pericolo il nostro progetto rivoluzionario? Su cose la cui posta in gioco non ci concerne? Che qualcuno sia partigiano dell’unicità o del pluralismo amoroso non è problema di qualcun altro. Una sola cosa è importante: che ciascuno possa cercare il proprio pieno sviluppo individuale a suo modo, senza essere accecato da una qualunque ideologia, che essa venga dalla società patriarcale del matrimonio e dell’esclusivismo morale o dalla società di chi crede di possedere le ricette della libertà, sentendosi in grado di dire chi è libero e chi non lo è, in un mondo di gabbie e di catene. Perché, a partire da ciò, rifiutare di vedere che alla complessità degli individui è intrecciata la complessità delle situazioni? Che se una regola potesse guadagnare tutti gli animi, sarebbe per forza di cose inoperante e parteciperebbe alla negazione degli individui. Essendo una regola, limiterebbe comunque la libertà.
Quanti opuscoli per spiegarci come scopare, come amare, quale rapporto avere con il proprio corpo. Quante norme troppo ristrette per i nostri desideri e le nostre percezioni. Quanti di noi, passata l’eccitazione della finta novità dei sedici o vent’anni, sono riusciti a ritrovarsi in questi nuovi modelli di pseudo-libertà? Quanti hanno anche sofferto dicendosi di non essere fatti per la libertà perché amavano una sola persona ed erano amati da una sola persona? Quanti si sono autoflagellati perché provavano gelosia? Si sono sentiti usati dall’altro, con la scusa della sua libertà? Si sono sentiti a disagio sotto lo sguardo inquisitore di quelli che si sentono liberi in questo mondo del dominio? Hanno dimenticato, nella chiusura settaria e ideologica di piccole bande, che ci sono alcuni miliardi di persone intorno a noi?
Come capita con tutte le derive ideologiche, prima ancora di aver studiato la realtà la adattiamo a ciò che l’ideologia vorrebbe vedervi. Non cerchiamo di fare quello che vorremmo, ma cerchiamo di volere ciò che dovremmo volere, piuttosto che partire dai nostri desideri reali ed individuali – e nelle distribuzioni del milieu ci sono fin troppi opuscoli, libri e testi a spiegarci quello che dovremmo volere. Allora, in questa corsa alla decostruzione ed alla pseudo-libertà, bisogna essere quanto più aperti è possibile, bisogna provare tutto, perché è necessario. O più precisamente, perché ciò è necessario per sentirsi decostruiti, migliori degli altri, armati di una nuova forma di progressismo. Si vede soltanto la trave che si ha nell’occhio, per riprendere al contrario la metafora biblica, e non si vede più il campo infinito delle possibilità che si offrono ai nostri occhi attraverso la distruzione. Come se decostruzione di se stessi e distruzione di questo mondo non potessero andare di pari passo.
Era il buon vecchio Kropotkin a dire che «strutture fondate su secoli di storia non possono essere distrutte con qualche chilo di dinamite» ed aveva ragione. Nel senso che la distruzione fisica non basta e si somma necessariamente ad una decostruzione profonda dei rapporti sociali, con cui è coerente. Ma mai ha voluto dire che qualche chilo di dinamite non potesse, pure quello, far emergere delle splendide potenzialità.
Non sono alcuni illuminati della decostruzione, sul modello di Zarathustra (che si ritira per dieci anni su una montagna e poi un bel giorno sente il bisogno di condividere la sua saggezza con il popolino), a portare la potenzialità di fare la rivoluzione, no. La rivoluzione (ed in misura minore l’insurrezione) è un fatto sociale, cioè, che lo si voglia o no, bisogna che un giorno o l’altro un largo strato della popolazione si sollevi. È a fianco di queste famose “persone normali” (come a volte si sente dire) che potremo fare la rivoluzione, non soltanto fra di noi, pochi sfigati antiautoritari super-decostruiti che potrebbero parteciparvi solo in scala ultra-ridotta. La rivoluzione non potrà essere che l’opera di quelle persone “normali”, con le loro qualità ed anche i numerosi difetti, che spesso si trovano ad anni luce da tali questioni (e da parecchie altre…).
Ma torniamo alle nostre farfalle. Armand sosteneva che «in amore, come in tutti gli altri campi, è l’abbondanza che annienta gelosia ed invidia. Ecco perché la formula dell’amore in libertà, tutti a tutte, tutte a tutti, è destinata a diventare quella di ogni ambiente anarchico selezionato, riunito per affinità». Ma come ci si può permettere, ieri come oggi, di affermare con tanta boria e tanta soddisfazione, qual è La forma (“la formula”!) di relazione amorosa e sessuale che deve essere adottata dagli anarchici (o da qualunque altro gruppo sociale)? Il termine «libero amore» contiene già in sé questa forma di esclusione, poiché implica che la sua formula da sola può apportare libertà, mentre noi dubitiamo seriamente che si possa trovare la libertà attraverso l’amore, sia esso chiamato “libero” oppure no. In fondo, si tratta davvero della libertà che cerchiamo attraverso l’amore?
Non dobbiamo illuderci, nell’èra del postmoderno il concetto di libertà serve spesso, purtroppo, da pretesto per la negazione degli individui e per la negazione di ogni vera volontà di trasformare il mondo. «Non me ne frega un cazzo e me ne sbatto di te!» sembra essere la nuova libertà; in altre parole la libertà totale ed indivisibile, individuale ma condizionata dalla libertà altrui (che è al centro delle prospettive anarchiche da quando sono oggetto di dibattito e di discussione fra gli anarchici) si vede sostituita da questa specie di liberalismo già onnipresente. Ciò si somma ad un processo di normalizzazione che esprime la propria violenza attraverso la marginalizzazione degli individui visceralmente refrattari a tali norme, e spiega che se per loro non funziona così, il problema sono loro. Ma in tutto ciò non c’è nulla di straordinario. Dopo tutto, questo piccolo ambiente è il prodotto di questo mondo e lo riproduce in maniera speculare.
Ma tale liberalismo ha mille facce e supera di gran lunga la questione delle relazioni affettive. A forza di riflettere per mezzo di ideologie e attraverso parole-chiave da usare ed altre da bandire, si finisce per non essere più capaci di nient’altro se non guardarsi l’ombelico con soddisfazione, in una piccola bolla comoda in cui a miliardi di altri esseri umani è vietato penetrare – e ciò nonostante i discorsi ultrasociali di facciata.
Allora ci dicono che la libertà è il nomadismo, è volteggiare qua e là come una farfalla, ma in questo modo come ci si può inscrivere in un reale intervento rivoluzionario con una continuità su un quartiere, un paese, una regione; con una pubblicazione, un posto, una lotta? Quelli che si sentono liberi di volteggiare come farfalle da una lotta all’altra si rendono conto che possono permetterselo solo perché altri rendono possibile la continuità di tali strumenti? Che alla prova dei fatti un tale romantico volteggiare è soltanto un’altra forma di comodo consumo?
E quando si parla di intervento rivoluzionario come di un lavoro di lungo respiro, che ha bisogno di sforzi adeguati e del “sacrificio” di una parte del proprio tempo, a volte della propria libertà e spesso delle proprie piccole comodità, in quanti si indispettiscono: «fatiche, lavoro, bleah, sporco capitalista!». Allora bravi, cari compagni, siete liberi, non siete capitalisti, siete super-decostruiti, ma per fare che? Le cronache si ricorderanno di voi dicendo che vi siete divertiti, ma gli altri rivoluzionari non serberanno di voi che il ricordo del fatto che li avete solo consumati; ed è là, ad un livello profondo, che si trova il capitalismo: nel consumo degli sforzi dell’altro, ma anche nel consumo dei corpi.
Ma che le malelingue non sputino il loro veleno attraverso la mia bocca: non si tratta di opporre la prassi rivoluzionaria al godimento. Tengo a precisare che la gioia non si trova necessariamente nelle forme che lo spettacolo dà loro di solito; non si tratta però di raccomandare qui un qualche ascetismo o rigorismo, perché a cosa servirebbe l’aver tanto criticato il militantismo se poi se ne riproducono i difetti? Ma secondo me al giorno d’oggi il progetto rivoluzionario come prodotto di una certa diversità di esperienze non si trova nelle categorie e nei ruoli sociali falsamente opposti del militantismo e degli ambienti desideranti/decostruiti. Che quelli che ne dubitano sappiano che si provano piacere e soddisfazione nel costruire sentieri per la sovversione e che il monopolio dell’estasi e della gioia non appartiene alle farfalle. Perché, per quanto sia bella, la farfalla è un insetto che vive solo per qualche giorno e la cui capacità di elaborare progetti, di immaginare il futuro, è quindi fortemente limitata. Una farfalla è graziosa ed è romantico compararvisi, certo, ma bisogna scegliere fra diventare rivoluzionari oppure crogiolarsi nella miopia e nei godimenti istantanei dell’incoerenza e del gauchisme liberale/libertario.
Con il termine gauchisme non intendiamo per forza un’area specifica, ma alcune tendenze che si ritrovano un po’ dappertutto nel milieu, fra gli anarchici, i comunisti, gli squatter e perfino fra i più ferventi partigiani di una rottura completa con la sinistra. Come abbiamo detto, una delle caratteristiche più importanti del gauchisme è il capovolgimento e l’inversione dei valori dominanti, che, quando si somma ad una certa forma di libertarismo, diventa liberalismo.
Il maggio 68, talvolta suo malgrado, ha probabilmente contribuito a dare origine a queste nuove forme di gauchisme che si dedica a contemplare il proprio ombelico. In una società borghese dai valori soffocanti e ben radicati, in molti si sono sforzati a fare soltanto il contrario di quello che la società si aspettava da loro, cosa che ha fatto sì che ne riproducessero specularmente i difetti. La droga era un tabù assoluto nella società, allora perché non farne un totem e sentirsi liberi fra due pere, con la testa nel canale di scolo? La coppia è la prima cellula d’alienazione nella società? Allora siamo liberi, facciamo orge, scopiamo quanto più è possibile, collezioniamo le conquiste di un giorno e sentiamoci liberi mentre tanti altri restano a terra ko per aver amato persone che li hanno solo consumati.
Basta aprire un opuscolo sul «libero amore», sulle relazioni cosiddette “libere”, la non-esclusività, i «comfort affettivi» ed i famosi “affetti” per rendersi conto che la sola cosa a venir proposta è la negazione completa dell’individuo ed il suo consumo, con l’unico fine egoistico di un godimento istantaneo, il più delle volte in un rapporto economico di accumulazione, di profitto e di cannibalismo sociale. Allora, ecco che secondo uno di questi testi sembra che libertà sia avere la possibilità di farsene cinquanta e di «avere la scelta». Reificazione a tutti i livelli! Questa sera sarà Jean, è alto e mi farei volentieri uno alto; mi tengo Joséphine per domani perché mi piacciono le donne mature e dopodomani ho la mia storia feticista con Mohammed. Godere senza tempi morti! Ma questo rapporto è quello dell’accumulazione del capitale, di un “capitale affettivo” questa volta, in cui le merci sono degli umani, considerati come beni sociali, beni affettivi accumulati su un conto in banca sentimentale. Allora sì, siamo liberi di sfruttare e di essere sfruttati liberamente, ma allora la parola “libertà” non ha più alcun senso: la social-democrazia ha vinto, l’economia ha vinto, l’epoca ha vinto, sono perfino penetrate nella nostra intimità affettiva e nei nostri rapporti interindividuali, fino a rendere caduca ogni forma di libera associazione degli individui.
Quando questo mondo ci fa credere che la nostra libertà si trova, in un supermercato, nella possibilità di scegliere fra diversi marchi di spazzolini da denti, mette in atto esattamente lo stesso stratagemma. Il “libero amore” o poli-amore “decostruito”, così come viene presentato nel giro, non è meglio, la maggior parte delle volte, di questa “libertà di consumare”. Alla fin fine è molto simile a quello degli ambienti libertini borghesi o della gioventù aristocratica e alto borghese, dei “sex-friend” ed altri “fuck-buddie” che pagano gli operatori di borsa ed altri fighetti della City. Salvo che per una differenza, ovvero che il libertinaggio borghese dà a chi lo pratica la sensazione magari eccitante di rompere o aggirare norme e divieti, procurando il brivido della sovversione dei valori morali e dell’anticonformismo, anche se in maniera molto limitata e superficiale. Il libertinaggio dell’ambiente, invece, è ben diverso, nel senso che si tratta di una norma relativamente maggioritaria, che serve a procurare la fiacca sensazione di essere conformi agli standard ideologici dell’ambiente stesso. Ciò a dispetto dei desideri individuali di ciascuno, che sono in perpetuo movimento e mai stabiliti una volta per tutte, come capita in un ambiente o in qualunque collettività che fissi delle regole, necessariamente riduttrici, che si applicano a tutti i casi possibili e a tutti gli individui, inevitabilmente più complessi poiché unici.
Jean, Joséphine e Mohammed condividono davvero la stessa visione della relazione che io intrattengo con loro, per l’unica ragione pretestuosa che ne avremmo discusso “chiaramente”? Partiamo tutti dalla stessa situazione, prima di impegnarci in una relazione di questo tipo? L’ideologia associata alla riduzione del linguaggio di un mondo di potere, basta davvero a mettere le cose in chiaro?
Alla fine ci sono ben poche differenze, se mettiamo da parte le differenze di atteggiamenti, fra il “liberamorista” consumatore e l’Emiro poligamo che sotto lo stesso tetto sceglie ogni notte quale donna ha voglia di scopare o di amare mentre le altre gli preparano da mangiare. Nel milieu c’è una sola differenza significativa, visto che femminismo e gauchisme intrecciati sono passati di là: a volte le donne beneficiano di una maggiore tolleranza nella pratica dell’harem. Un po’ quello che vale per gli uomini nel resto della società.
I partigiani più ideologici del «libero amore» commettono alla fine i medesimi errori di tutti coloro che sono accecati dall’ideologia, qualunque essa sia. Sostituiscono gli individui reali con persone-tipo rimpiazzabili, negando la loro complessità ed unicità. Quando due persone incominciano una relazione ultra-definita, cioè con le famose discussioni “chiare” dell’inizio, su cosa ciascuno si aspetti da quella relazione e sulle sue modalità, bisognerebbe innanzitutto potersi porre il problema dell’equilibrio fra queste due persone. Se una delle due ha già avuto molte relazioni amorose e l’altra no. Se una delle due è socialmente considerata “brutta”, “bella” o “carismatica” e l’altra no. Se una delle due si aspetta dall’altra solo dell’affetto mentre l’altra si aspetta amore. Se una delle due è felice mentre l’altra è infelice ed insicura o se una delle due padroneggia la lingua con più disinvoltura dell’altra. Possiamo negare tutto ciò?
In quanti, non particolarmente desiderosi di avere una relazione non esclusiva, l’hanno accettata per adeguarsi ai desideri dell’altro. Ma questo accettare, questo «sì» è veramente un «sì» libero? Perché se Jean è innamorato di Jeanne ed in posizione di debolezza e Jeanne lo mette a parte del suo desiderio di una relazione non-esclusiva e paritaria, Jean accetterà. E Jeanne avrà l’impressione che tutto è semplice e facile, senza chiedersi se Jean non avrebbe accettato di buon grado anche il contrario.
Allora questo sì del debole è così diverso dal «sì» che diciamo al padrone per lavorare? Sosteniamo qui che si tratta dello stesso «sì» e che parlare di libertà in questi casi è perpetuare quello che Nietzsche chiamava «quel sublime inganno […] che sta nell’interpretare la debolezza stessa come libertà».
Quelle di emancipazione sessuale sono idee belle e generose, ma ognuno di noi, facendole passare nel crogiolo della propria individualità e del riconoscimento dell’unicità dell’altro, dà loro delle modalità diverse. Come abbiamo già detto, sosteniamo che non esiste alcuna norma che possa regolare le relazioni umane, ciò per la stessa ragione per cui ci opponiamo alla Legge, cioè il fatto che essa non potrà mai tenere conto della complessità degli individui che le sono sottoposti. D’altra parte è per questo motivo che le contrapponiamo l’etica, necessariamente individuale e, speriamo, viscerale, quando non è stata imparata in modo ideologico, e mal digerita, da qualche opuscolo. Allo stesso modo sosteniamo che il solo modo di relazionarsi un po’ emancipatore è quello che pone al centro della sua attenzione il benessere degli uni e degli altri, libero da trappole e dagli imperativi dell’ideologia e capace di superare un intimismo che guarda solo il proprio ombelico. Perché la sola regola valida in amore non potrebbe essere quella di fare attenzione all’altro, trattarlo in modo corretto, come individuo, piuttosto che applicare ciecamente delle regole che dovrebbero renderci liberi attraverso il solo godimento personale, ma senza alcuna sensibilità verso l’alterità? Facendo, tra l’altro, l’errore analitico di limitare la critica dell’economia alla semplice economia formale, piuttosto che scovarla nei rapporti sociali che regolano le nostre relazioni alienate.
Allora, per spezzare l’obbligo sociale e normativo della coppia si sceglie un poliamore ideologico e si fabbrica una nuova norma, comoda finché dura, prima che si facciano avanti nuovi drammi umani. Non è un caso se il 68, al di là delle incredibili esperienze di occupazioni e distruzioni di fabbriche e di università, di scontri e di barricate e più in generale della magnifica esperienza di aver toccato con la punta di un dito la possibilità di una vera sovversione dell’esistente, non è un caso se al di là di questa icona si nascondono molti drammi umani, suicidi, overdosi, tradimenti ed una tristezza infinita. Non è un caso se dietro ogni esperienza di emancipazione di massa (o che in ogni caso sia stata vissuta così dai suoi protagonisti) si nascondono altrettanti drammi umani, dal maggio 68 a Woodstock, dalla “liberazione sessuale” ai maoisti ed ai movimenti studenteschi radicali negli Stati Uniti degli anni 60 e 70. Niente di strano, poi, nel fatto che tanti siano riusciti a cadere in piedi, formando la classe dirigente del mondo d’oggi, mentre tanti altri che hanno applicato le idee alla lettera si trovano a marcire in galera, dimenticati da più di quarant’anni, pagando il fatto di non essere stati incoerenti come gli altri, di non aver cercato solo il godimento dell’istante presente.
Quelli che erano lì solo per divertirsi, volteggiare qua e là come farfalle e liberarsi l’ombelico ne hanno ben tratto profitto. Quelli che ci hanno creduto e che ancora ci credono ne hanno fatto le spese. Perché il profitto degli uni è lo sfruttamento degli altri, che sia con le armi del capitale e del lavoro oppure con quelle dell’ideologia e dell’irreggimentazione da caserma, sia essa di partito oppure autonoma.
Allora, che le farfalle volteggino pure raccogliendo polline, ma che i fiori si ribellino.