105254264-e298feca-d3ea-4707-9527-3901729e672dI danni del proibizionismo sono sotto gli occhi di tutti, eccetto, di coloro i quali offuscati da “indiscutibili principi ideologici” non possono né vogliono accettare le evidenze: reiterati accertamenti della persistente violazione dei diritti umani dei consumatori di sostanze, siano essi problematici o consapevoli, qualunque sia la sostanza che hanno deciso di assumere, “leggera” o “pesante”.

La posizione proibizionista, opposta a una concezione che rivendica l’esistenza (e lotta per la difesa) delle libertà individuali, si configura nella mente di alcuni dei suoi sostenitori, quale unica risposta possibile a una serie di problemi che un mercato illegale da una parte e l’abuso delle sostanze dall’altro, hanno certamente creato, tanto nelle collettività quanto negli individui. Malgrado si appartenga a tale categoria o ad una delle varianti più moderate, non è più accettabile non accorgersi del fallimento delle politiche proibizioniste sin qui perseguite a meno che non si convenga a quella categoria di censori ben conscia della genesi del modello ed in grado di sfruttarlo per meri fini economici e di controllo sociale.

Il fallimento è certo non solo perché non si è raggiunto l’obiettivo di un mondo libero dalle droghe, in origine sancito in seno alle organizzazioni mondiali, ma molto più per le conseguenze delle azioni poste in essere. Si è man mano assistito al consolidamento e all’accrescimento nel numero delle organizzazioni dedite al narcotraffico, all’indebolimento delle comunità attraverso la corruzione, agli aumentati problemi di natura sanitaria conseguenti a politiche errate e ad una sempre maggiore diffusione di sostanze utilizzate in maniera inconsapevole ed irresponsabile (ad esempio, basti pensare alla diffusione delle infezioni da Hiv in uno dei paesi maggiormente proibizionisti al mondo come la Russia). Al contempo, la violazione dei diritti umani perpetrata a più livelli ed in maniera differente nelle comunità – ancor più se povere, con maggior ferocia – generate dalle azioni di intelligence e polizia, hanno tradito i principi su cui si fondano le organizzazioni mondiali e hanno invalidato qualsiasi supposta liceità delle politiche di proibizione.

Infine, a tutto ciò si aggiunge lo spreco di denaro pubblico compiuto. A poco valgono, in tal senso, gli allarmi riguardo una maggiore spesa sanitaria nel caso in cui non si fosse combattuta una guerra sul fronte militare e delle leggi; mai un’alternativa diffusa è stata sperimentata, nonostante i successi di quelle realizzate in ambito locale, al pari, non è stato garantito il supporto necessario alle azioni di prevenzione e di riduzione del danno, nonostante i risultati positivi conseguiti in termini sociali e sanitari ove queste hanno potuto essere realizzate.

Il cambiamento che si profila deve pertanto essere alternativo al modello proibizionista; va concepito adottando una visione paradigmatica della riduzione del danno e orientandosi alla regolamentazione del mercato e del consumo di sostanze attraverso strumenti differenti da quelli sinora subiti.

L’idea di adottare i Cannabis Social Club quale modello per la produzione ed il consumo delle cosiddette droghe leggere va in questa direzione. Esso si pone l’obiettivo di sperimentare e sviluppare modelli che eliminano alla base il ricorso al narcotraffico, sia per scelta che per il ricorso unico all’autoproduzione; evitano un arricchimento immotivato di coloro i quali se ne occupano attraverso un modello co-operativo e associazionistico ove il controllo del valore economico di ciò che si produce è regolato da tutti i membri del club e dove i pericoli di abuso vengono affrontati mediante il ricorso ad una produzione limitata e ad una distribuzione partecipata, fondata sulla effettiva necessità dei soci: modalità che attraverso un’azione collettiva mira ad accrescere e consolidare elementi di protezione individuale da abusi e dipendenze.

Per quanto si è certi della validità del modello sopra esposto, le cui peculiarità operative sono ampiamente illustrate nello statuto, si è pensato di operare una scelta che privilegiasse, almeno in un primo momento, coloro i quali necessitano per ragioni di salute dell’assunzione di cannabinoidi.

Tale scelta è connaturata al rispetto e la tutela della libertà di cura, oggi ancora ampiamente ostacolata nonostante alcune leggi la sanciscano, in parte ed in linea di principio, ma non ne garantiscano la piena attuazione.

Promuovere la cultura legata agli effetti benefici della cannabis fa emergere le contraddizioni connaturate alla cultura proibizionista secondo cui le sostanze rappresentino un fattore aggiuntivo e pertanto eliminabile, quando invece esse sono parte della cultura di comunità e fasce sociali, e gran parte dei problemi connessi sono imputabili proprio alle azioni di proibizione.

L’evidente insuccesso delle forze politiche che, fin dall’approvazione del decreto, si sono impegnate per la revisione della Legge Fini-Giovanardi, muove ancor più in direzione della promozione di un percorso comune dal basso, capace di contrastare supposti principi di illegalità legati all’autoproduzione contrapponendovi un concreto rifiuto del mercato clandestino, unito a concetti di salute e benessere dell’individuo.

Alcuni territori hanno iniziato da tempo un percorso con pazienti affetti da diverse patologie che hanno bisogno dei benefici e degli effetti terapeutici della cannabis, il cui uso gli viene negato o laddove venga concesso, comunque impossibilitato dai costi eccessivi dei preparati, su cui lucrano enormemente le grandi industrie farmaceutiche. Considerando l’autoproduzione lo strumento migliore per far fronte a questa problematica, due gruppi di pazienti di Torino e Genova, consapevoli dei rischi a cui vanno incontro e determinati a cambiare la loro situazione, sono pronti a costituirsi in una forma associativa che possa garantire il loro fabbisogno ad un prezzo accessibile, e calcolato unicamente sulla base delle spese di coltivazione.

Per evitare che queste rimangano esperienze isolate e allo scopo di intercettare bisogni analoghi sul territorio nazionale, crediamo sia importante prima di concretizzare il percorso, chiamare a raccolta chi potrebbe essere interessato e presentare il nostro progetto, che, come successo in altri paesi europei, potrebbe essere propedeutico ad un cambiamento radicale dal basso delle politiche sulle droghe. Non è nostra intenzione fermarci all’uso terapeutico ma crediamo che il modello dei CSC possa essere appannaggio di tutti e tutte, come forma di regolamentazione di produzione e consumo di cannabis, sostanza oggi enormemente diffusa e ancora fortemente perseguita.

L’appuntamento è per sabato 2 Marzo all’ex colorificio occupato di Pisa, in via Montelungo 70 a partire dalle ore 11. La riunione proseguirà dopo pranzo fino alle ore 18.00.

Sono invitati tutti coloro i quali, singoli e collettivi, pazienti e consumatori, siano interessati a dare una svolta dal basso a questa situazione e ad abbracciare il modello dei Cannabis Social Club.

Autoproduzione e condivisione, pratiche di libertà…

RETE NAZIONALE “LA FINE DEL MONDO PROIBIZIONISTA

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