Quel che è accaduto all’isola del Giglio, l’incredibile naufragio di una nave da crociera a pochi metri dalla costa, è proprio una metafora del mondo in cui viviamo.
Un’imbarcazione mastodontica, gioiello dell’industria navale, con tutti i confort, ipertecnologica, adibita al trasporto di persone a fini di puro divertimento. Più che una nave, un albergo galleggiante. Un vero e proprio simbolo del lusso e dello sfarzo, ma di quel lusso e di quello sfarzo finti e stucchevoli, alla portata di molte tasche. I veri ricchi, si sa, non viaggiano su navi da crociera, possiedono le proprie imbarcazioni private. Non si mescolano coi cafoni arricchiti, con quella classe media che si può permettere di sborsare un migliaio di euro per una crociera. Una settimana di “piacere” organizzato, patinato, catalogato, per sentirsi al di sopra dell’inferno in cui si danna il volgo innumere, per sentirsi alle porte del paradiso dei privilegiati.
Queste migliaia di passeggeri vengono servite e riverite da un personale per lo più straniero, proveniente dai paesi più poveri del pianeta, assunto senza garanzie, sottopagato e sfruttato. Questi camerieri, questi cuochi, questi baristi, non parlano la lingua dei passeggeri, spesso non parlano nemmeno una lingua comune fra loro, non corrono il rischio di descrivere i loro tormenti, non corrono il rischio di conoscersi, mettersi d’accordo, solidarizzare. Servono in silenzio, in tutti i sensi.
E l’imbarcazione era guidata da un comandante inetto, tutto tronfio nel prestigio datogli dall’uniforme, più attento a dispensare sorrisi che a seguire le rotte. Avete mai visto un lupo di mare impomatato? Avete mai sentito di un comandante che si precipita, assieme ai suoi secondi, ad abbandonare la nave che affonda lasciando migliaia di passeggeri e di personale nel panico?
Ecco, questo colosso del mare si è incagliato a pochi metri della riva, dove era giunto per fare il cosiddetto “inchino”. Doveva infrangere le acque, si è squarciato sugli scogli. Nessuno aveva previsto dove avrebbe portato l’arroganza e l’idiozia umana, quindi nessuno ha saputo bene cosa fare. Tutto quel lusso e quello sfarzo si sono rivelati inutili e insensati. Come può un “animatore” improvvisarsi marinaio? Il bilancio, al momento, è di undici morti e una trentina di dispersi. All’orizzonte, si staglia anche lo spettro della catastrofe ambientale.
Ed ora, com’è ovvio, ci si interroga su come sia potuta succedere questa tragedia e si scarica ogni responsabilità sul comandante; in un certo senso, sull’ultimo anello della catena. Chi ha creato il mercato delle love boat, perfetta unione fra l’avidità dell’economia e la finzione dello spettacolo? Chi le ha costruite? Chi le ha pubblicizzate? Chi ne trae profitto? Ma non solo. Chi le ha ammirate, desiderate, prenotate e quindi, in fin dei conti, giustificate e pagate? Meglio non porsi questi interrogativi, meglio linciare il comandante cattivo cui fa già da contraltare un capitano buono. Come se, qualora ci fosse stata l’autorità giusta, tutto ciò non sarebbe accaduto.
Ad un secolo esatto dall’affondamento del Titanic, avvenuto nell’aprile del 1912, di quante altre tragedie del mare, incidenti nucleari, catastrofi ambientali, avvelenamenti alimentari, epidemie virali… abbiamo ancora bisogno, prima di capire che dobbiamo ammutinarci a questa civiltà che ci sta portando dritti al naufragio, che è necessario invertire la rotta e abbandonare la bussola del profitto e del potere, che bisogna buttare a mare tutti i capitani e i comandanti?